Julián

 

Quando entravano a Villa Sol e chiudevano il cancello di ferro, da fuori non si sentiva più niente e io me ne tornavo in albergo. Mi fermavo a cenare nei dintorni, respirando l’aria fresca della sera, a volte mi sedevo per un po’ sulla terrazza di un bar a prendere un decaffeinato e a contemplare i corpi seminudi, gli ombelichi, le spalle, le gambe della gente. Mi piaceva perché non erano del tutto nudi.

Salivo in camera senza un’idea molto chiara di come uscire da quell’impasse, di come indurre quei due a rivelarsi per ciò che erano in realtà. Non potevo piombare alla polizia e dire: “Qui vive un pericoloso criminale di guerra”. “Pericoloso?” avrebbero obiettato. “Ormai non è pericoloso proprio per nessuno, ha un piede nella fossa.” Sarebbe vissuto abbastanza da affrontare un processo? Certo, con le opportune prove avrei potuto diffondere ai giornali la notizia dei suoi crimini, fare in modo che lui e la moglie fossero costretti a sopportare il disprezzo dei vicini e non potessero più mettere piede al supermercato, in ospedale, in spiaggia come chiunque altro. Avrei potuto rovinare loro la vita. Avrei potuto costringerli a fuggire, a vendere la casa, a fare le valigie e a ricominciare da capo, il che alla loro età sarebbe stato un vero supplizio. Sicuramente sognavano di passare lì i loro ultimi anni di vita. Ma a farlo sarei stato io, non loro. Loro non avevano il diritto di morire in pace.

Che cosa avrebbe fatto Salva di loro se fosse stato al mio posto? Mi aveva lasciato in eredità una preda ma non mi aveva detto cosa avrei dovuto farne. Quando Raquel era ancora viva e io cadevo nella tentazione di fare ciò che stavo facendo adesso, lei mi diceva che non ero al passo coi tempi, che le cose ormai funzionavano in un altro modo, che c’erano altri metodi di indagine e che avrei fatto meglio a rimanere a casa. Ebbene sì, sapevo perfettamente che nessuno contava sul mio aiuto, che nessuno si ricordava di me né di ciò che avevo fatto in passato; i miei vecchi compagni erano nelle mie stesse condizioni o stavano addirittura peggio, mentre i nuovi arrivati mi credevano morto. Il mondo ormai era in mano ad altri e io avrei dovuto fare le cose a modo mio.

Uno di quei giorni, mentre tornavo in albergo, mi venne incontro il portiere con la grossa voglia sulla guancia. Mi guardava con un’espressione spaventata e mi chiese di accomodarmi su una delle poltrone della hall. Doveva esserci qualcosa che non andava.

«Si tratta di mia figlia? Le è successo qualcosa?»

Fece cenno di no e mi tranquillizzai. Se mia figlia stava bene non poteva essere così grave.

«Si è verificato un episodio allarmante nella sua stanza... È stata devastata.»

Lo ascoltavo tenendo gli occhi ben aperti.

«La mia stanza?»

«Sì, la sua stanza. Sono entrati e hanno messo tutto a soqquadro. Hanno anche squarciato il materasso e la fodera della poltrona. Abbiamo delle cassette di sicurezza. Se aveva con sé qualcosa di valore sarebbe stato meglio che ne avesse affittata una.»

Fu sicuramente la tranquillità della mia reazione che lo spinse a passare dall’atteggiamento mortificato a un tono di rimprovero.

«L’albergo non può farsi carico di simili trascuratezze da parte dei clienti.»

«Non ho niente di valore, se si riferisce a denaro, gioielli o cose del genere.»

Aveva smesso di considerarmi solo un anziano indifeso e cercava di vedere oltre le rughe e il mio aspetto decrepito.

«Capisco. E... droga?»

Se non scoppiai a ridere fu solo perché capii che Fredrik mi aveva scoperto e aveva ordinato a qualcuno di spaventarmi. Ignoravo come, ma dopo l’episodio del supermercato era riuscito a trovarmi. E ad allarmarmi ancor più era il fatto che Fredrik non fosse solo, o almeno non fosse circondato solo da vecchi, che di certo non avrebbero potuto fare una cosa del genere, visto che richiedeva forza e rapidità.

«Chiunque sia il responsabile di tutto questo deve aver sbagliato camera. Non riesco a trovare altra spiegazione», conclusi.

Il portiere mi chiese scusa e si offrì di cambiarmi di stanza. Potevo bere qualcosa al bar mentre trasferivano i miei bagagli. Accettai pensando che l’unica cosa da fare fosse cambiare albergo, ma a ben rifletterci prima o poi mi avrebbero localizzato di nuovo. Sicuramente avevano trovato la pratica che avevo tirato fuori dai miei archivi personali. Per fortuna avevo infilato nella tasca della giacca il ritaglio di giornale e le due uniche foto che avevo di loro da giovani. Lei vestita da infermiera e lui che faceva ginnastica in maglietta.

Mi sedetti al bancone del bar e ordinai un decaffeinato. Dal momento che ero stato scoperto la situazione cambiava completamente. Cosa ancor più temibile, Fred era molto più sveglio di quanto avessi pensato. E non era solo, c’erano altre persone al suo fianco. Sarebbero stati capaci di uccidermi?

Dopo un po’ il portiere con la voglia tornò a dirmi che avevano già spostato tutti i miei bagagli, ma che potevo fare un salto nella vecchia stanza per accertarmi che non avessero dimenticato niente.

«È la prima volta che succede una cosa del genere in questo albergo. Ci scusi per il disturbo. Siamo mortificati.»

Gli feci un cenno perché smettesse di scusarsi, mi dava fastidio che si sentisse in colpa.

«Non si preoccupi, noi vecchi siamo un bersaglio facile», dissi sfilando il portafogli dalla tasca, a dire il vero inutilmente, perché non mi lasciò pagare.

In camera erano rimasti solo l’astuccio delle lenti a contatto e uno dei due bloc-notes: l’altro lo tenevo in macchina. Non era strano che non l’avessero visto, con tutte le cose che c’erano per terra. Il guanciale, la federa, l’imbottitura dei cuscini e del materasso fatti a pezzi, le ante dell’armadio, le boccette di bagnoschiuma e di shampoo in bagno, i cassetti della scrivania, alcuni quadri scadenti e le bottigliette e i pacchetti di frutta secca del minibar. Persino la radiosveglia. Volevano farmi capire che erano venuti per me.

«Ma sì!» dissi. «Si sono sbagliati, non c’è dubbio.»

«In ogni caso, controlli che non le manchi niente. Domani l’investigatore dell’albergo dovrà farle qualche domanda. Spero non sia un problema.»

Per risarcirmi dello spavento mi avevano assegnato una suite all’ultimo piano. Era un peccato che la mia povera Raquel non potesse godersela. C’era un salone con poltrone e divani e una grande terrazza con piante tropicali dalle foglie enormi da cui si scorgeva il porto. A Raquel sarebbero piaciuti molto anche la vasca idromassaggio, i fiori, la cesta di frutta e la bottiglia di champagne. Ero contento che mia figlia non mi avesse accompagnato, perché così mi sarei dovuto preoccupare solo di me stesso. Tirai un sospiro di sollievo quando vidi la pratica dell’archivio avvolta nelle camicie e nei pantaloni. Gli scagnozzi di Fredrik non l’avevano trovata.

«Le auguro un piacevole soggiorno. Se avesse bisogno di qualsiasi altra cosa non esiti a chiamarmi. Io sono Roberto.»

Gli dissi di portarsi via lo champagne e di berlo con sua moglie perché io non potevo toccare alcol. Roberto sorrise e disse che avrebbe mandato una cameriera a prenderlo.

Esaminai le serrature della porta e della finestra che dava sulla terrazza cercando di immaginare un modo per renderle più sicure. Finché fossi stato dentro, sarebbe stato molto difficile che mi attaccassero di sorpresa. Il problema si sarebbe ripresentato non appena fossi uscito.

Fredrik doveva aver pensato che dopo il raid in albergo me ne sarei tornato di corsa a casa. Il messaggio era chiaro: potevano squarciarmi le budella come avevano fatto con il materasso e i cuscini. Potevano gettarmi a terra come avevano fatto con i quadri. Non che una simile possibilità non mi spaventasse, ma non avevo niente da perdere, e tornare indietro a quel punto sarebbe stato un enorme sforzo dal punto di vista psichico. Se mi avessero ucciso mi sarebbe dispiaciuto per mia figlia, perché non volevo farla soffrire, ma era comunque scritto che sarei morto molto prima di lei e che prima o poi avrebbe sofferto per la mia perdita. Perciò decisi di dormire sonni tranquilli, e in effetti ci riuscii. Mi svegliarono alcuni timidi raggi di sole che filtravano dalla finestra.

In ogni caso non avevo intenzione di fare pazzie. Date le circostanze, avrei lasciato respirare i Christensen almeno per un po’. Il nuovo giorno mi aveva suggerito una mossa più intelligente: mi sarei avvicinato alla casa della ragazza con la ciocca rossa.

Era sabato ed erano quasi le undici. Il sole splendeva ma non scottava. L’estate stava finendo. Prima di uscire dalla stanza stabilii che non mi sarei fatto fermare dai mezzi tecnologici che il nemico avrebbe potuto usare e che sarei ricorso ai vecchi trucchi di sempre. Appesi alla maniglia della porta il cartello NON DISTURBARE, per essere certo che la cameriera non entrasse, poi, infilai tra la porta e lo stipite dei pezzetti di cellofan ritagliati dall’etichetta della bottiglia. Se qualcuno avesse aperto la porta, si sarebbero inevitabilmente spostati o sarebbero caduti. Non avevo il tempo di pensare a trucchi più sofisticati: dovevo essere me stesso, un vecchio decrepito che non poteva contare neppure sulla sua gente.

Il Profumo delle Foglie di Limone
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